CAPITOLO III
I microbi fanno rumore. S’incuneano dietro i mobili sopra le stelline di cristallo, sul comò, tra le ali di vetro del lampadario. Se anche la filosofia, sovrana luce, avesse optato per quella linea, ai fiori ossessivi pomeridiani e nell’odore del fieno, nelle fruste oasi, implorando e compresse tra visione delle finestre, geometriche figure della mente, ed il pensiero dell’ostacolo intorno a cui giravo e di cui disconoscevo la forma, non un poligono e né un cerchio, essenza base della sua forma essendo la riflessione ed in quello specchio logico osservare magnificenze, premesse ed assenze: punto primo essendo la visione del corpo ed attraverso di esso la visione, solo scopo dei coriandoli e delle forme, io essendo nell’orizzonte di un altro, dovessi pensare il testo, poggerei rotocalchi sulla balaustra, attendendo astronavi; ed il tocco dell’avviso mi giunge appena mi alzo sobrio e sovrano, motorizzato.
Albinavano le sazie attese, si scusavano e masticando gomma e pan soffice osservavano il sole all’orizzonte del campo di terra. Simulata da una luce rotonda avanzavano oggetti oblunghi simili a lunghi vermi.
Le affrettate incurie nella cucina, sulle stoviglie di alluminio affumicate, guardavano con occhio illanguidito la piega bluastra ed iridescente del percorso; ove s’oscurava, ritte e scoscese le gobbe di terra spezzavano il percorso: all’interno albinavano le sazie attese con i corpi illanguiditi e curvi: la figlia dal cuore tenero e dall’anca giovane, seni coperti e vita tesa, un tremolìo dal ginocchio in su, senza dubbio tenera la via ed il basilico del prato, ove di politico sfrecciando l’umore si abbassava e toccando la punta del prato produce negli occhi di lei e delle altre sentori e sapori: oh sconvolgere l’assetto ed acquistare nell’attesa quell’aria che tu stesso possedevi o che altri, ed a bocconi, un po’ pieni di paura ed un po’ sobri, rosicchiando erbetta ed avverbi, ed ascoltando ed oscurando, ove sulle cosce le scritte si spegnevano e s’accendevano, come d’inverno le tue labbra sobrie e carnose, come nell’avvenire i tuoi possibili incontri, come negli incontri i tuoi possibili sguardi, come negli sguardi le tue lontane attese e quell’improvviso trattenere il respiro, e la caduta nella tenera terra del luogo, nascondersi, dici cose leggere, ed altro ed altro ancora, se sempre cogli dei miei sensi l’origine, cinta da carni e fiori, cinta nell’immobilità di quella occlusione intellettiva, ché tenera era la notte e periglioso il cammino, di cioccolata, d’amara erba o d’improvvisi saperi: soffusa soffusa e spenta, soffusa soffusa e tenera, soffusa soffusa s’adopera e s’ingegna di pervenire al politico slargo ove sole e sorrisi e vociare frequente spezza l’attesa.
Chi? Suono eremita che sempre a ruota circonda e la veste vibra scossa, rotando il luogo s’abbruna a festa, luci, coriandoli, pali erti, stuoie, salvadanai.
Si costituisce in essenza: o goffa cagliostra, tenue t’insegue l’erba, la lumaca o più perversamente e con trasparenza l’ormai. Non sai nominare che sventure o d’altronde ceci fagioli canne pietre formiche: a seconda delle circostanze ti aggiri: piccola e tenera e desiderosa, s’abbruna e la mano calda sosta sulla via dell’Acqua appena appena accennata, con scarsa decisione, tra distributori di benzina, reticolati e polvere!
La sera si sfila la sottana e nel racconto appare come un bestione, una capra, cannule le voci ed aereo l’ondeggiare, spicca sull’ano la tenera linea a taglio, sporge il corpo ed il desiderio, s’estingue come autostrada distesa e sinuosa.