CAPITOLO X

Era l’amore la sintesi o la sintassi o la rallentata sensazione assoggettata ad un’inutile stanchezza, non vivendo d’altro che di parentesi sibilline, oppure ascoltando sul viale ghiaioso, di notte, l’opulenta sensazione di benessere che induceva a deduzioni ed a traballanti novità; si viveva come d’attesa; appena qualcosa appariva si correva in quella direzione (per osservare) e subito dopo in direzione opposta.

“Prestami questa tavola di legno” diceva, e si ritrovava insieme ad altri a spingere nella sabbia pali o ad indagare sulla composizione delle rocce.

Non che fosse l’intelligenza od altro di sensibilmente vistoso; era un qualcosa che aggirava percuoteva e sminuiva il senso strategico o metasensuale o rigoglioso ed incostante, con precisione, caparbietà, spietatezza.

“Non mi condannare, dammi consistenti possibilità di ridere e giocare e dedurre faziosamente insieme a te!” diceva.

Ma era come se fosse tutto inutile!

Soltanto appariva quel corpo sensuale e forte, dalle cosce ben delineate, non voglioso ma pieno di curiosità, e sempre in attesa della sensazione giusta e del colpaccio.

“Mica male questa attesa!” avrebbe pensato lui in altri tempi.

L’origine delle cose non era un problema, e neanche era un problema l’acquisto quotidiano del cibo. “Sai, non ha voglia d’impegnarsi, ma non è gran che necessario che sia qui tutti i giorni.” Diceva A. R.

Spaziava il suo desiderio dal cerebrale corposetto poco romantico al drammatico fatale (trappola/trappola), linea disegnata e poco incisa, occhio timido impertinente.