CAPITOLO IX

Assoggettato alla sua inutile stanchezza opponeva un debole rifiuto, sottraeva armonia alla frase non per l’impazienza di riscoprire i ricordi, ma per contrapporre quella quieta atmosfera nella quale fluivano case giardini mobili fiori pentole vestiti parole ad un’ipotetica telescrivente che riceveva continuamente messaggi anche slegati l’un l’altro, anche con interruzioni di collegamento e con interferenze, come se quel ticchettio continuo della stampante contenesse materiale ben altrimenti interessante che quel quieto scorrere e fluire del sapere-ricordo.

E chi poteva garantirne il valore (od un qualunque criterio di attendibilità, di adesione, di coerenza) ad un ordine ad una poetica ad una corrente?

Sapeva di essere una telescrivente e non una stampante da memoria incisa su supporto? E sapendo di essere una telescrivente, avrebbe saputo resistere a quell’idea di precarietà, di assenza, di continui rimandi a significati non immediatamente collegabili l’un l’altro? Chi avrebbe potuto garantirgli un territorio od un qualunque apparente spazio quotidiano e casalingo? Ogni irruzione di pensiero avrebbe potuto interrompere qualunque frase e qualunque costruzione di un discorso complesso, pena la chiusura l’impoverimento l’attendibilità e la banalità del testo. E come resistere alle regole grammaticali del discorso, chi e quale barriera avrebbe potuto non proteggerlo (non lo desiderava neanche) ma filtrare la violenza dell’irruzione dei pensieri nella mente e di conseguenza nel testo? Non sentiva e non gradiva di poter essere uno di quegli scrittori armonici, dalla frase sonora, armoniosa, dai significati densi, dal senso gradevole e decorativo, ammirato dai lettori decisi, impegnati nei propri affari e non disposti a farsi confondere dalle caratteristiche comunque non uniformi del testo.

Se avesse avuto visione di cosce femminili, di fagioli, di barattoli di latta, che relazione avrebbe saputo stabilire tra le cosce femminili, i fagioli, i barattoli di latta?

Queste riflessioni turbavano il suo pomeriggio assolato dell’inizio dell’estate; si sentiva una specie d’individuo disarticolato, incapace di comunicare, costretto a dare un senso a tutte le sue sensazioni, ma tuttavia in preda ad ossessioni, a desideri, a ragionamenti incoerenti, a verità indimostrabili, a presunte relazioni tra pensieri ed esperienze, ad inevitabili ed inconfessabili deduzioni, a calcoli apparentemente non funzionali, in preda ad amori apparentemente senza filtri, a voglie sacrosante ma inopportune; questo sistema di riferimenti era quello che veniva definito “contesto” “civiltà” “riferimento storico”, etc. oppure il concetto di contesto di civiltà di riferimento storico avrebbero potuto contenere tutto, anche questi dubbi ed altri ancora più forti? E se così fosse stato, di che utilità sarebbero state definizioni praticamente onnicomprensive e quindi vaghe?

Decise che non sarebbe mai divenuto uno scrittore perché troppo libera ed imperfetta la sua immaginazione. Tuttavia qualcosa stava accadendo, nella sua mente-telescrivente, o nel ticchettio sentimentale del testo, oppure nella garbata ma continuamente fluttuante ipotesi che il suo dire ed il suo pensare non fossero la contestazione di qualcosa ma fossero soltanto il dire ed il pensare e l’irrompere in quella stanca presenza che era il presente, fuori e dentro il linguaggio, con un linguaggio in sosta ed un linguaggio accelerato, pera, anca, argine, vituperio od altro ancora, e poi il nome di qualcuno, alessandro, rapisarda, oneto, metastasio, immalinconito, ebete, assurdamente fermo dinanzi alla porta dell’aula con il professore incartapecorito e demente, fremente, che urlava sullo stile e sulla scuola, e che s’accapigliava con se stesso, ed egli povero lettore della sua passione incontinente, del suo stile assente, della sua arsura manipolatoria e tuttavia della sua docilità sentimentale, innamorato come una trottola, sobrio come un ruscello, distinto, avvilito, trapunto da iridescenti occasioni generose, seppure donandoti pensieri e parole, il dizionario scosceso o l’appuntamento con le inclinazioni ripetute! Dovunque!

Lì assiso si ricomponeva!

Turpe e turbata pagina, componimento ossessivo, deleteria convinzione, oscura metonimia! Gaglioffo!

Si componeva dunque la perfezione di pause sapientemente dosate e di ritmi disposti in modo credibile, paradigmatico, attendibile? E chi era il fantasma che presenziava alla elaborazione, che dava indicazioni come da una mappa inconsueta, che turbava e ricomponeva lo stile, quel giudice naturale dello stile?

Si poteva dunque ossequiarlo? Era il necessario complemento di un itinerario in cui la sosta, l’ossequio, il compiacimento divenivano arte? Scellerata mestizia! Adorazione iniqua di modelli, memorie trattenute erroneamente per lentezza di apprendimento e di successiva cancellazione. Era l’iterazione del prologo:

  1. “Sagace e tenace nella sua azione, L. accostava ogni mattina la porta e deponeva il latte sul tavolinetto d’ingresso non pensando quasi nulla.”
  2. “Cosa v’è di più caro del viale di casa, assiepato ed in ombra, nell’umile pomeriggio di settembre.” (umile?)
  3. “Ignoravo la mia vera identità, ma …”

o dell’epilogo:

  1. “Sparì né più lo vidi.”
  2. “Non si occupò più di lei ed a chi gliene riparlava, chiedeva “Tu sinceramente, sei un ateo od un credente?””
  3. “L’incredibile storia si concluse in quel settembre nuvoloso, e scendendo i gradini del cortiletto ne ripercorreva i capitoli, uno ad uno, senza ricavarvi alcun plausibile insegnamento.”
  4. “Non ce l’aveva con lui né con nessun altro, solo si sorprese a riflettere ed a lungo sull’ultima lettera ed in particolare su quella frase “la tua inconsistente fragilità”, a lungo, come se essa fosse il sintomo della trasformazione, spettro ossessivo che avrebbe turbato i suoi ultimi anni.”

Concluse che invece di essere preoccupato della fedeltà della propria donna fosse soltanto preoccupato della propria reputazione di filosofo e di veggente (sic!).