CAPITOLO IV

Ah sì, ed io dovrei attendere che tu mi strappi dal cuore queste ustioni, parallelepipedo stordito delle mie curve irate, dei miei blu dipinti, dello scottante giorno, del sesso minuzioso, cariplo vita e segno ed occasione.

“Non ti preoccupare” dice.

E sciama sull’inguine peluria, costante humus evapora, densa sorniona speranza.

Ché non procurò giovamento ma stette lì ad osservarlo e steso sul suo parallelepipedo adocchiava ad ogni occasione quel che non poteva, chi dunque, ed eppure e scorciatoia sorcina, serenella, malia e non so dire altro; e lì ritto sull’impalcatura – dannato paludoso birillo sognava ed attendeva quantunque sottile e d’una specie interiore cosicché può – d’origine alcuna segnata – parametro, come un birillo ritto, e lo prendeva la paura, frena il verso ed innesta il freno e scioccamente avanza come un asse ebete un po’ iroso e descrive grazioso segno e descrive terrestre segno d’incerto segno d’anche antica origine e mi proietta giovani d’ambo i sessi irosi ed ignari, mordendo pere e mele – sassi ai lati del sentiero – e chi era tu lo ignori o lo vedi e lo sai e lo descrivi; resta chiaro ch’era d’ogni altra luce quella e se non quella non la tua piscettina gioiosa e spinellina ludica, madre lingua può e ad ogni occasione toccare a vita questo e quel senno, di poi e questo, senno d’allora ed anche le tenebre lì a spicchio su queste tue spalle da ossuto (sic!) gendarme.