La passione non è la vita, ma un cunicolo buio dove individui mascherati ti rubano il portafoglio, pensando che tu lo abbia con te.
Il mondo è più denso di qualsiasi sua rappresentazione.
L’umanità è incompatibile con lo sviluppo del pensiero: suo compito è dare senso a ciò che non ha senso e togliere senso a ciò che è profondamente intriso di senso.
Ad ogni domanda la risposta è sempre la stessa.
Ogni evento trascende se stesso, ma solo in se stesso.
Il comunismo è la realtà che diventa regola, il fascismo è la regola che diventa realtà, il capitalismo è una forma di anarchia a pagamento.
Ciò che stiamo vivendo non è vero, è solo sintomo di qualcosa più complesso.
Se Dio ha bisogno di esistere, sicuramente non è Dio.
Chi pensa che invece del fascino sia importante l’attualità, non ha orizzonti.
Dio, la prima volta che fu contestato, elaborò il principio di autorità.
Ogni filosofo si affatica a dimostrare le proprie teorie perché pensa che qualcuno possa dargli torto.
C’è un tavolo delle trattative dove si definiscono le verità, ma non ho memoria di alcuna convocazione. La timidezza si dissocia, la spavalderia condivide.
I trucchi servono per supplire all’abilità.
Ogni parlar chiaro, distoglie l’attenzione da ciò che è oscuro e che nel frattempo ci divora.
Quando si privatizza l’economia, e si socializza la comunicazione, il risultato è niente denaro pubblico, e false dicerie senza autore.
…Era la creazione, quella sorta di chiacchiericcio infinito, elaborata da un creatore a sua volta progettato da un creatore più grande e potente, tra loro rivali come sono rivali tutti gli esseri, che si scrutano con una malcelata diffidenza, per niente risolutiva. Chi era il complice e chi era il rivale: cercava di capirlo. Se la poesia a volte si pone all’attenzione anche di chi non vuole è per la sua specifica natura invasiva. Ti colpisce nel momento meno opportuno e ti lascia con una sensazione che v’è qualcosa di importante che tu non hai ancora affrontato e che altri hanno già affrontato e ne godono addirittura…
CAPITOLO XI
Luna contatto della sera, ossobuco incostante, sera, parabola del desiderio, luna rosa, paura d’alberi di luoghi d’aspettative. Eccola lì, la rosea, l’inutile, la vogliosa, l’incostante, la corposetta, la vendicativa, la desiderata, la polposa, ridente e sana, arcuata, umida, di terra e di sole, inebetita, piccola, nebulosa, chitarra-luna, pascolo, lineetta.
CAPITOLO VII
Pullula ed ossessa memoria ripercorre con maschile giogionesco sapere, come se fosse la forma del corpo con gambe affusolate a spartire l’universo, forma diversa o simile, momento pomeridiano al cimitero, tomba alcova tessile, mobile e flessuosa, semi-pane ad occhi-frutta, tenero ingresso sui lastroni/marmo-violaceo, sporchi d’erba e terra, ascoltando grilli qua e là, tenera s’apre ed ascolto, meridiano x e parallelo y, dove gioia sottrae energia, dove energia sottrae materia, dove materia s’intimidisce in malattia e s’estingue e lì cadaverica serina perniciosetta fessura oscura implode in occlusione storico-extra, chi era e che sei, cosciona lunga, malinconia, anno tempo fisso, pere sull’albero all’orizzonte piccolo, ti stringi al ventre (cattivo un assolato corpo) che eccoti ossuta cadaverina sul lastrone violaceo, occhi-frutta e semi-pagnottine, che gioisci e d’estremo faraglione fai inguine bosco campo arato, a sera l’atmosfera nelle foto in bianco e nero s’appesantivano filtrate dal vetro colorato, movimento dei fiori e delle lampade votive, disordine di fiori secchi a terra e su occhi tuoi sapori d’altro, che non erano vicende o storie, e s’essiccavano nel richiamo poliedrico, dal parallelo y al meridiano x a nuovo Atlante (distinto per gradi e gerarchie). A sera t’attendo, violino lento su aria sacra, percorre nota su nota e ritorna, percorre nota tenera e nota forte, s’interrompe, langue, scolora, si accalora nei movimenti, sfreccia la moto ai lati sul costone della via, sfreccia nuvola e sole, cala il buio, tenero priapo convoca muri di cinta, croci, portoncini di cappellette, via via al compito chiamati, raduno di stelle e di punti, raduno di sentite cose, raduno d’essenze, aride perlinate ed umidicce di sapori profumati, mai come allora domi, come allora tesi, come allora d’imeneo tratti sui costoni della via sulle sue pelose insenature, tratte a vista e perniciosamente in movimenti bruschi denotanti assiomi, desideri, e residui sulle pareti come gallerie muschiose mentre suona la campana del cimitero e nicchia il suo pensiero e s’apre l’ansia all’umida delimitata giallo-corallina essenza di lui che scorre, pioggia di prima sera mentre i significati scattano come gettoniere segnalando movimenti A/B cavo/pieno passivo/attivo senso/controsenso delimitazione/errore etc…., appunto l’inutile vogliosa spiritosa incurante appetitosa sexy/curiosa, a chiedersi ancora perché, lì dinanzi ad una finestra accielata, blu-cielo oltre il vetro, sistematicamente essenziale, capelli, camicie, colori, sabbia…
CAPITOLO XIII
Per alcuni anni ho amato un demone in forma di donna. L’aspetto tranquillo, discreto, l’occhio appena appena lucido e velatamente malizioso, il corpo sodo dritto, ed i seni morbidi non eccessivamente dritti, per anni mi sono sentito spiato dalla sua presenza costante; ovunque andassi, desiderosa della mia passione ed avida e sorpresa di continuare a carpire i miei pensieri e la trama dei miei comportamenti, eccitata dalla mia stessa esistenza, avvertivo la sua presenza a volte discreta a volte pesantemente condizionante.
Vittima dell’illusione di crederla un umano, illusione che con raccapriccio turbava la mia tranquilla naturalezza, trascorrevo il tempo scandito da questo respiro incerto e variabile in sintonia con quel suo mondo privo di relazioni; la sua unica relazione con l’esterno ero io!
Apparentemente i suoi pensieri ed i suoi comportamenti erano come i miei! Dormiva, si nutriva e dialogava con gli umani anche vivacemente!
Per me era come una sorta di melodia, come l’Andante della Sinfonia Concertante di Mozart K364, uscita da quell’atmosfera falsamente letteraria, struggente ed avvincente, in cui il tempo s’eclissava poco a poco con effetto dissolvenza ed in cui un notevole spreco d’energia era concesso allo spargimento delle emozioni sulle lampade sul prato sui mobili sul pavimento in cui il pensiero pareva indebolirsi ed essiccarsi, non era niente di preciso, né la sagacia di sparire o la perdita né la decadenza, ma era tuttavia un pensiero, forse la dannazione od il paradiso, o la retorica, ma niente di falsamente vitale, in quell’atmosfera in cui pensavo dovesse necessariamente essere eppure non era, con una riflessione che mi procurava una infantile sicurezza e tuttavia difficile da smentire, perché ero lì di fronte a quel respiro materiale, musica indubbiamente od essenza sbagliata del mio incorreggibile orgoglio, orgoglio, suvvia! chi a ragion veduta oserebbe parlare di orgoglio, era un naturale piacere o dispiacere, una vitale speranza, neanche sciocca, che certo avrebbe messo a dura prova il dispensatore di verità costringendolo ad acconsentire per senso di colpa! tuttavia poteva essere inutile ed illusorio quel che con tanta intensità percepivo ed ero in grado di descrivere e che mi procurava tanta energia! o prime luci della sera! se deve essere la disintegrazione che lo sia! interessi e stimoli assiepati intorno ad un unico interesse, tutto distrutto, nient’altro che il sintomo di un materiale respiro, e quella meccanica flessuosità delle idee, era come scavare e scavare ossessivamente e vedere sparire progressivamente l’orizzonte e rifiutarsi pian piano di gonfiare ossessivamente gli avvenimenti ed i racconti e prestare attenzione a quell’unico stimolo, una sorta di melodia, come l’Andante della Sinfonia concertante di Mozart K364, l’attacco, quel punto in cui dalla pausa emergono suoni e sembra che vogliano riscrivere la tua storia fino a quel momento, cancellando tutti gli avvenimenti indecisi, violenti, irritanti, una sorta di melodia, e tu chiuso lì dentro una scatola di materia, oh sì! una scatola di materia senza poter protestare, ed allora ti aggrappi a quell’immagine e la rincorri e la idolatri, ed essa ti compare e ti perseguita nel sonno e nel dormiveglia, spavalda e sorridente anche se non necessariamente vittoriosa, dentro quella scatola ossessiva di materia aggrappato a quella roteante sfera che niente all’esterno avrebbe lasciato presagire! l’incontenibile malizia dell’essere! per giorni e giorni roteando intorno ad una figura umana, assoli di violino turbati soltanto dalla verticalità di un vento lieve tra foglia e foglia!
CAPITOLO V
S’insinua nel dubbio quotidiano, con il sole pietra solare inscatolata lì nel carta da zucchero volteggiare montagnoso, come se dovendosi attendere, fosse definitivo, e s’insinuava appena.
Svettavan gli alberi e la via silvestre nell’altopiano.
Ad occhi piccoli ed a chi volendo. Attendeva in questo pomeriggio pigro, liquefatto ai confini della pianura nel primo pomeriggio, s’ergeva ai lati dell’industrializzata valle (nota del redattore). Occhi freddi, alto, sui quarant’anni. A lei apparve assecondato dalla ristrettezza del viale, per vicoletti e costoni tra una tomba e l’altra.
Ferma sulla soglia attendeva la donna. Se ansia oscura il senso a lei non oscurava attesa che più era estesa, con il vestito scuro, speranzosa ed umile, in piedi sulla scaletta scende verso casa.
Densa la fantasia nella calura – incapace di sacrificare le ambizioni alla fantasia, come uno scrittore ebete, oppure incapace di sacrificare la fantasia all’ambizione, petroso ed eccessivamente terreno, su viali alberati nei pomeriggi afosi, che consumava la densa stilla mista di ciò che impastava le cose della sua irriducibile presenza, costante ossessione al suono delle cicale pomeridiane, dall’irriducibile sapore, qualcosa ch’era malinconia e malia insieme ed accorata attesa della liberazione, per valli e per campi rifratta – proiettava ragione macerata nei suoi confini, una granita di pensiero pronta a liquefarsi alla presenza di una momentanea ed ossessiva eternazione.
Desiderio, stella-diamante, raptus, inseguimento, sui costoni assolati e per liquefatte manie, stinte, stantie, ed il camion si rovesciò sul campo di peri, le ruote giravano all’aria, seni stinti o comportamenti, ed è qui che l’attendo, odorosa d’un pizzico di non altro sui rosoni, ch’irrompe a sera, che dispera, che humus, tritato ed ossequioso, pedestre, riservato, minuzioso!
CAPITOLO IX
Assoggettato alla sua inutile stanchezza opponeva un debole rifiuto, sottraeva armonia alla frase non per l’impazienza di riscoprire i ricordi, ma per contrapporre quella quieta atmosfera nella quale fluivano case giardini mobili fiori pentole vestiti parole ad un’ipotetica telescrivente che riceveva continuamente messaggi anche slegati l’un l’altro, anche con interruzioni di collegamento e con interferenze, come se quel ticchettio continuo della stampante contenesse materiale ben altrimenti interessante che quel quieto scorrere e fluire del sapere-ricordo.
E chi poteva garantirne il valore (od un qualunque criterio di attendibilità, di adesione, di coerenza) ad un ordine ad una poetica ad una corrente?
Sapeva di essere una telescrivente e non una stampante da memoria incisa su supporto? E sapendo di essere una telescrivente, avrebbe saputo resistere a quell’idea di precarietà, di assenza, di continui rimandi a significati non immediatamente collegabili l’un l’altro? Chi avrebbe potuto garantirgli un territorio od un qualunque apparente spazio quotidiano e casalingo? Ogni irruzione di pensiero avrebbe potuto interrompere qualunque frase e qualunque costruzione di un discorso complesso, pena la chiusura l’impoverimento l’attendibilità e la banalità del testo. E come resistere alle regole grammaticali del discorso, chi e quale barriera avrebbe potuto non proteggerlo (non lo desiderava neanche) ma filtrare la violenza dell’irruzione dei pensieri nella mente e di conseguenza nel testo? Non sentiva e non gradiva di poter essere uno di quegli scrittori armonici, dalla frase sonora, armoniosa, dai significati densi, dal senso gradevole e decorativo, ammirato dai lettori decisi, impegnati nei propri affari e non disposti a farsi confondere dalle caratteristiche comunque non uniformi del testo.
Se avesse avuto visione di cosce femminili, di fagioli, di barattoli di latta, che relazione avrebbe saputo stabilire tra le cosce femminili, i fagioli, i barattoli di latta?
Queste riflessioni turbavano il suo pomeriggio assolato dell’inizio dell’estate; si sentiva una specie d’individuo disarticolato, incapace di comunicare, costretto a dare un senso a tutte le sue sensazioni, ma tuttavia in preda ad ossessioni, a desideri, a ragionamenti incoerenti, a verità indimostrabili, a presunte relazioni tra pensieri ed esperienze, ad inevitabili ed inconfessabili deduzioni, a calcoli apparentemente non funzionali, in preda ad amori apparentemente senza filtri, a voglie sacrosante ma inopportune; questo sistema di riferimenti era quello che veniva definito “contesto” “civiltà” “riferimento storico”, etc. oppure il concetto di contesto di civiltà di riferimento storico avrebbero potuto contenere tutto, anche questi dubbi ed altri ancora più forti? E se così fosse stato, di che utilità sarebbero state definizioni praticamente onnicomprensive e quindi vaghe?
Decise che non sarebbe mai divenuto uno scrittore perché troppo libera ed imperfetta la sua immaginazione. Tuttavia qualcosa stava accadendo, nella sua mente-telescrivente, o nel ticchettio sentimentale del testo, oppure nella garbata ma continuamente fluttuante ipotesi che il suo dire ed il suo pensare non fossero la contestazione di qualcosa ma fossero soltanto il dire ed il pensare e l’irrompere in quella stanca presenza che era il presente, fuori e dentro il linguaggio, con un linguaggio in sosta ed un linguaggio accelerato, pera, anca, argine, vituperio od altro ancora, e poi il nome di qualcuno, alessandro, rapisarda, oneto, metastasio, immalinconito, ebete, assurdamente fermo dinanzi alla porta dell’aula con il professore incartapecorito e demente, fremente, che urlava sullo stile e sulla scuola, e che s’accapigliava con se stesso, ed egli povero lettore della sua passione incontinente, del suo stile assente, della sua arsura manipolatoria e tuttavia della sua docilità sentimentale, innamorato come una trottola, sobrio come un ruscello, distinto, avvilito, trapunto da iridescenti occasioni generose, seppure donandoti pensieri e parole, il dizionario scosceso o l’appuntamento con le inclinazioni ripetute! Dovunque!
Lì assiso si ricomponeva!
Turpe e turbata pagina, componimento ossessivo, deleteria convinzione, oscura metonimia! Gaglioffo!
Si componeva dunque la perfezione di pause sapientemente dosate e di ritmi disposti in modo credibile, paradigmatico, attendibile? E chi era il fantasma che presenziava alla elaborazione, che dava indicazioni come da una mappa inconsueta, che turbava e ricomponeva lo stile, quel giudice naturale dello stile?
Si poteva dunque ossequiarlo? Era il necessario complemento di un itinerario in cui la sosta, l’ossequio, il compiacimento divenivano arte? Scellerata mestizia! Adorazione iniqua di modelli, memorie trattenute erroneamente per lentezza di apprendimento e di successiva cancellazione. Era l’iterazione del prologo:
- “Sagace e tenace nella sua azione, L. accostava ogni mattina la porta e deponeva il latte sul tavolinetto d’ingresso non pensando quasi nulla.”
- “Cosa v’è di più caro del viale di casa, assiepato ed in ombra, nell’umile pomeriggio di settembre.” (umile?)
- “Ignoravo la mia vera identità, ma …”
o dell’epilogo:
- “Sparì né più lo vidi.”
- “Non si occupò più di lei ed a chi gliene riparlava, chiedeva “Tu sinceramente, sei un ateo od un credente?””
- “L’incredibile storia si concluse in quel settembre nuvoloso, e scendendo i gradini del cortiletto ne ripercorreva i capitoli, uno ad uno, senza ricavarvi alcun plausibile insegnamento.”
- “Non ce l’aveva con lui né con nessun altro, solo si sorprese a riflettere ed a lungo sull’ultima lettera ed in particolare su quella frase “la tua inconsistente fragilità”, a lungo, come se essa fosse il sintomo della trasformazione, spettro ossessivo che avrebbe turbato i suoi ultimi anni.”
Concluse che invece di essere preoccupato della fedeltà della propria donna fosse soltanto preoccupato della propria reputazione di filosofo e di veggente (sic!).
CAPITOLO X
Era l’amore la sintesi o la sintassi o la rallentata sensazione assoggettata ad un’inutile stanchezza, non vivendo d’altro che di parentesi sibilline, oppure ascoltando sul viale ghiaioso, di notte, l’opulenta sensazione di benessere che induceva a deduzioni ed a traballanti novità; si viveva come d’attesa; appena qualcosa appariva si correva in quella direzione (per osservare) e subito dopo in direzione opposta.
“Prestami questa tavola di legno” diceva, e si ritrovava insieme ad altri a spingere nella sabbia pali o ad indagare sulla composizione delle rocce.
Non che fosse l’intelligenza od altro di sensibilmente vistoso; era un qualcosa che aggirava percuoteva e sminuiva il senso strategico o metasensuale o rigoglioso ed incostante, con precisione, caparbietà, spietatezza.
“Non mi condannare, dammi consistenti possibilità di ridere e giocare e dedurre faziosamente insieme a te!” diceva.
Ma era come se fosse tutto inutile!
Soltanto appariva quel corpo sensuale e forte, dalle cosce ben delineate, non voglioso ma pieno di curiosità, e sempre in attesa della sensazione giusta e del colpaccio.
“Mica male questa attesa!” avrebbe pensato lui in altri tempi.
L’origine delle cose non era un problema, e neanche era un problema l’acquisto quotidiano del cibo. “Sai, non ha voglia d’impegnarsi, ma non è gran che necessario che sia qui tutti i giorni.” Diceva A. R.
Spaziava il suo desiderio dal cerebrale corposetto poco romantico al drammatico fatale (trappola/trappola), linea disegnata e poco incisa, occhio timido impertinente.
CAPITOLO VIII
Non oro a spinta, prosa, sapere enciclopedico, natura-prosa, natura-tecnica, natura-orgasmo, come se l’indifferenza dell’erba potesse assolvere da emozioni assenti, da pianificazioni, da incoercibili vigliaccherie, dalla civiltà-valore alla civiltà-ressa, Alpi automobili rospi spelacchiati vergini di scarso pregio ruffiani incuranti assoggettati ad inutili rituali da caproni disabili oscure avvisaglie di un evento pian piano evocato che diviene geometria logica matematica ed oscuramente assoggettati all’indifferente mistura di minestre ansia e sapere dovunque si annidasse lui il figlio dell’albero dell’universo 2 o come altro si chiama controllo emozione sedimentazione alcova luce dipinta od oscura metamorfosi di eccessive ossequiose soste eccessive sedimentazioni eccessive voglie inutili dovunque spese.
La brillantata fantasia ripercorreva tracce come cortecce d’albero, sapori di spumante, colorazioni sul fondo cielo- alluminio, la ragazza seduta alla sedia, i pioli color noce, l’odore dei biscotti, il suono della fisarmonica, il concetto di quel filosofo mio antenato sempre attento a spianare il pensiero e ad aggirare veri e propri blocchi di materia pura, panieri di sentimenti di possessi e di aspirazioni, pur sapendo di non poter distribuire le cose come volantini, pur sapendo ciò ch’ignorano i veri imbecilli (che la cosa è un’altra) che proiettano nella Storia come acchiappafarfalle, ecco il fenomeno, inquadralo inquadralo, “inquadra ‘sta minchia” disse Jo il figlio pesciaiuolo del filosofo, si sa che tutti i figli dei filosofi diventano pesciaiuoli, prima o poi, un localino maiolicato, due banconi un frigorifero uno scacciamosche e tutto quell’odore di pesce fresco e di ghiaccio, e se ne stava lì tutto il giorno, ossequioso ed un po’ captato dal ritmo della radio, monotono, il colpo della batteria un po’ sordo per la piccolezza dell’altoparlante, appena 7 cm.
CAPITOLO II
Se è o se non è, e se la lunga catena od il pulviscolo attraversa e discende nel fascio della luce come pollini, erbe, case, tabelle, sigarette.
Se classico o non classico si proponeva di ruotare intorno alla formula; la massima ampiezza della formula bucava la cattiveria cosmica. Chissà chi è e chissà perché. E perché sensazionalmente non toccava le luci tremolanti o le traballanti biciclette nella sera in bianco e nero. Piccola / intervallo intervallo / disperazione / a giorni si può sgattaiolare e fluire nel fiume; infatti lo stile s’interrompe: chi crede all’assoluta certezza dello stile, confidenziale civiltà, balordo avventuriero provincialotto, piuttosto bruttino e lagnoso (lagnoso e non lanoso) chi crede si sbaratta ed afferra le incroccate fette tostate di farina impastata ed attende: a furia di gironzolare è giunta anche questa cosa: questa cosa umorale e tagliente, fuggevole ed emozionante, cadente o …sosta prima; l’ansia ti scinde, ti spezza, ti procura… (patemi?).
Il percorso era cosparso di borchie di madreperla e di luci intermittenti.
“Non ho amore, non ho onore, non ho denari, attendo uno psichiatra su una porta di legno non verniciata, di legno multistrato.”
Così i cavolfiori o le betulle, genere di piante delle amentacee, si dissolvevano nella molle sostanza colorata cerebrale, perché i cavolfiori o gli unguenti e perché questa lunga distanza da ciò che era una più propizia abitazione, un luogo in cui abitare e soggiornare piacevolmente ed a lungo apprendere i delicati moti delle piante e dell’aria.
CAPITOLO III
I microbi fanno rumore. S’incuneano dietro i mobili sopra le stelline di cristallo, sul comò, tra le ali di vetro del lampadario. Se anche la filosofia, sovrana luce, avesse optato per quella linea, ai fiori ossessivi pomeridiani e nell’odore del fieno, nelle fruste oasi, implorando e compresse tra visione delle finestre, geometriche figure della mente, ed il pensiero dell’ostacolo intorno a cui giravo e di cui disconoscevo la forma, non un poligono e né un cerchio, essenza base della sua forma essendo la riflessione ed in quello specchio logico osservare magnificenze, premesse ed assenze: punto primo essendo la visione del corpo ed attraverso di esso la visione, solo scopo dei coriandoli e delle forme, io essendo nell’orizzonte di un altro, dovessi pensare il testo, poggerei rotocalchi sulla balaustra, attendendo astronavi; ed il tocco dell’avviso mi giunge appena mi alzo sobrio e sovrano, motorizzato.
Albinavano le sazie attese, si scusavano e masticando gomma e pan soffice osservavano il sole all’orizzonte del campo di terra. Simulata da una luce rotonda avanzavano oggetti oblunghi simili a lunghi vermi.
Le affrettate incurie nella cucina, sulle stoviglie di alluminio affumicate, guardavano con occhio illanguidito la piega bluastra ed iridescente del percorso; ove s’oscurava, ritte e scoscese le gobbe di terra spezzavano il percorso: all’interno albinavano le sazie attese con i corpi illanguiditi e curvi: la figlia dal cuore tenero e dall’anca giovane, seni coperti e vita tesa, un tremolìo dal ginocchio in su, senza dubbio tenera la via ed il basilico del prato, ove di politico sfrecciando l’umore si abbassava e toccando la punta del prato produce negli occhi di lei e delle altre sentori e sapori: oh sconvolgere l’assetto ed acquistare nell’attesa quell’aria che tu stesso possedevi o che altri, ed a bocconi, un po’ pieni di paura ed un po’ sobri, rosicchiando erbetta ed avverbi, ed ascoltando ed oscurando, ove sulle cosce le scritte si spegnevano e s’accendevano, come d’inverno le tue labbra sobrie e carnose, come nell’avvenire i tuoi possibili incontri, come negli incontri i tuoi possibili sguardi, come negli sguardi le tue lontane attese e quell’improvviso trattenere il respiro, e la caduta nella tenera terra del luogo, nascondersi, dici cose leggere, ed altro ed altro ancora, se sempre cogli dei miei sensi l’origine, cinta da carni e fiori, cinta nell’immobilità di quella occlusione intellettiva, ché tenera era la notte e periglioso il cammino, di cioccolata, d’amara erba o d’improvvisi saperi: soffusa soffusa e spenta, soffusa soffusa e tenera, soffusa soffusa s’adopera e s’ingegna di pervenire al politico slargo ove sole e sorrisi e vociare frequente spezza l’attesa.
Chi? Suono eremita che sempre a ruota circonda e la veste vibra scossa, rotando il luogo s’abbruna a festa, luci, coriandoli, pali erti, stuoie, salvadanai.
Si costituisce in essenza: o goffa cagliostra, tenue t’insegue l’erba, la lumaca o più perversamente e con trasparenza l’ormai. Non sai nominare che sventure o d’altronde ceci fagioli canne pietre formiche: a seconda delle circostanze ti aggiri: piccola e tenera e desiderosa, s’abbruna e la mano calda sosta sulla via dell’Acqua appena appena accennata, con scarsa decisione, tra distributori di benzina, reticolati e polvere!
La sera si sfila la sottana e nel racconto appare come un bestione, una capra, cannule le voci ed aereo l’ondeggiare, spicca sull’ano la tenera linea a taglio, sporge il corpo ed il desiderio, s’estingue come autostrada distesa e sinuosa.
CAPITOLO VI
Entra nel tunnel dall’aria colorata: traspariva ansia da marmellate invecchiate nei barattoli sugli scaffali, gocce liquefatte zuccherose, l’attesa dell’eroe, Apollo e Dafne, sentenza e pregiudizio, ossobuco e sangria, pena e litania, lenta molto lenta, l’alba vien su ed esplode, gocce iridescenti, salvezza e noncuranza, su quella zona di terra di nessuno, e tenera e scoscesa come saporosa pare e s’inchina o dondola, radica ed unguento, lì senza incrinature assiepato e saldo, passibile lentamente ad arrugginirsi, poi lesto e scivoloso per corpo d’acero, d’oleandro o d’altro genere, e tu perniciosa che mi scuoti e sembri cedere, avanzando come serpe flessuosa e lesta nel sapere, d’occhio- lince sapiente e tenera, che aspiri essenza e doni tempo-spazio, ossuto ma sapiente, e t’inoltri tra meandri paesaggistici, appostata a livelli concentrici plurimi, secca terra d’altopiano, prima ch’io ti dissotterri e dissotterri delle tue cause l’emblema come ho attitudine e come so, d’altro giorno impregnato, liquorosa e liquefatta e stupefacente azzurra facciata, nascosta e che nasconde, com’edera non sa, come prima, regina cadente, come sposa d’altre primavere, nell’atmosfera assiepata che individua meridiano x e parallelo y, focaccia fritta, pane abbrustolito e dal tetto sul davanzale il gatto dinanzi alla superficie specchiante del lago, d’erba e limo sparso circonfusa come tenera essenza, da bavosa disperazione indifferenza contratta, come polvere, come pulvirenta confezione, lì ove tramonta il sole come suol dire il vate, e sacra la forma circonda il recinto rettangolare, al te deum si spargevano e svettavano topi timorosi e toponi apprensivi ed io non ho di che parlarti, ché senza di questo tocco altro recinto e senza recinto i frammenti e senza i frammenti le molecole, ch’altra era la via ed il dominio ed il segno, ed i bimbi sospettosi e teneri giravano per le strade tracciate con occhi sapienti sfidando G., artefice e prigioniero del suo magma, apposta piazzato sulla collina come fosse lui quella cosa azzurra, spargendo benessere ed apprensione, linea e binario attraversato da ritmata littorina verniciata.
CAPITOLO XII
Girovagando per le stanze senza senso, senza senso il girovagare e senza senso le stanze, cercando il coro, l’inutile canto, zona d’ascolto e zona di circospetta esasperazione, deriso ma sovrano nella sua decisione, derelitto, un po’ assetato, gioviale e nervoso, guardando la cornice della finestra, il rettangolino utile per scrutare il cielo le rondini le foglie le api la polvere roteante tra le foglie le pietre ed i fili tesi in alto, sonora bugiarda aspettativa, rosea sbugiardata e pensosa e sospirosa attesa, l’amore l’incanto o l’osseo divenire, il corroso e corrotto elemosinare, elemosinare ancora, elemosinare, ed il canto del pozzo, e l’incanto del pozzo ed il pozzo fuligginosa immagine specchiantesi nel pozzo, appena come sdraiati accanto alle riquadrature di pura pietra, un po’ insensibili, appesantiti da quell’ora di pomeriggio, pensando ancora che l’amore potesse essere l’amore, dovendo uscire dal racconto, non potendo raccontare per te altro che te, la tua presenza a volte amata a volte pensosa ed ossessiva, pensando ossessivamente alla tua presenza gioiosa, cercando la gioiosità della tua presenza negli anfratti del ricordo di un passato recente, distruggendo e facendo distruggere il racconto, appena circonfusi d’un alone lieve di tragicità, ed il senso e l’assenso girovaganti perspicaci ridotte a luci psichedeliche roteanti nel vortice delle intermittenze, dense e corrotte, oscura necessità, necessità, via via morendo per le piogge primaverili, via via morendo per l’assenza di consenso e vogliosa d’incanto perderti nella memoriale fanciullezza, non tracciando sentieri, non costruendo, non assecondando quella sana energia, energia inutile, di perdere la parola, di perdere te, di perdere, di sparire in una notte priva di voci, priva d’ingiustizie, priva di aggressioni, semplicemente una notte, non più civiltà, non più il sacro imbecille dotto, non più il saputo perdente vanagloria fatta cenere, tragedia sviluppantesi da sola negli angoli sotto i mobili, ch’era del sublime agenzia, dell’arido rappresentante, e del sommerso venditore al dettaglio, ricordo inerte del tuo inutile girovagare, girovagare attorto nel senso del voluto, voluto, rampante allegria dei tuoi occhi, brivido del tuo corpo perduto negli intrichi della tua mente libera, libera la mente, libera l’ansia ma anche assente l’imbrunire!
CAPITOLO XV
Una sorta di sentimento di attesa inserito tra il piano alto ed il piano basso, non propriamente delineati ma avvertibili nitidamente, un salone sconfinato al centro ed un tavolo lungo molti metri, con una bottiglia piccola poggiata nel mezzo, ripiena di acqua. Era un sentimento, non un sentimento privato ma un sentimento pubblico. Cos’è un sentimento pubblico e cos’è un sentimento privato? Non si fermò a riflettere perché non c’era né il tempo né lo spazio per farlo, ma solo una confusione melliflua, fatta di sensazioni soffici, tipo zucchero filato in cui affondano le filosofie, elaborate ma non convinte, provvisorie, ma enciclopediche, elaborate per secoli e secoli e pervenute fino a noi non si sa da dove.
Era la creazione, quella sorta di chiacchiericcio infinito, elaborata da un creatore a sua volta progettato da un creatore più grande e potente, tra loro rivali come sono rivali tutti gli esseri, che si scrutano con una malcelata diffidenza, per niente risolutiva. Chi era il complice e chi era il rivale: cercava di capirlo. Se la poesia a volte si pone all’attenzione anche di chi non vuole è per la sua specifica natura invasiva. Ti colpisce nel momento meno opportuno e ti lascia con una sensazione che v’è qualcosa di importante che tu non hai ancora affrontato e che altri hanno già affrontato e ne godono addirittura; si irritò molto di questo, la poesia era irritante, concluse. Qualcuno ne era padrone e qualche altro no. Perché? Se avesse insistito nell’approfondire il fenomeno ne sarebbe uscito decentrato, privo di concretezza, stupito, contestato e torbidamente atterrato. Perché? Cos’era in fondo la poesia se non un insieme di parole. Chi poteva affermare che non lo fosse? E cos’era il pensiero? Un insieme di parole od un insieme di assiomi? E cos’era l’assioma se non un’arroganza ed un vizio del pensiero. E cos’era il vizio? Un software non proveniente da fonte sicura?
CAPITOLO I
L’oggetto non persiste, è musicale, mellifluo, caduco; esso spara immagini di sé alla velocità di circa alcuni miliardi di miliardi al secondo e gli oggetti sono numerosi, ed i personaggi sono alcune decine; misurando e trascrivendo le connessioni tra gli oggetti si genera un suono non riproducibile ma imitabile.
Esso segnala la sua presenza sia come assoluta trasparenza, quella persistente fissità delle cose, sia il suo movimento confidenziale tradotto ed amplificato dall’albume intellettivo dell’uomo bipede, come star o come inetto del villaggio o come ridondanza dell’inutilità dell’essere, del suo avvilimento, del suo amor proprio, della sua malattia, della sua potenza psichica, il rosso degli occhi nella notte, il formicolìo la stasi e l’estasi, il perimetro del girovagare all’interno di conchiglie ovattate, di barattoli, di pensieri spremuti, condensati ed evaporati, una poliglotta nenia.
CAPITOLO IV
Ah sì, ed io dovrei attendere che tu mi strappi dal cuore queste ustioni, parallelepipedo stordito delle mie curve irate, dei miei blu dipinti, dello scottante giorno, del sesso minuzioso, cariplo vita e segno ed occasione.
“Non ti preoccupare” dice.
E sciama sull’inguine peluria, costante humus evapora, densa sorniona speranza.
Ché non procurò giovamento ma stette lì ad osservarlo e steso sul suo parallelepipedo adocchiava ad ogni occasione quel che non poteva, chi dunque, ed eppure e scorciatoia sorcina, serenella, malia e non so dire altro; e lì ritto sull’impalcatura – dannato paludoso birillo sognava ed attendeva quantunque sottile e d’una specie interiore cosicché può – d’origine alcuna segnata – parametro, come un birillo ritto, e lo prendeva la paura, frena il verso ed innesta il freno e scioccamente avanza come un asse ebete un po’ iroso e descrive grazioso segno e descrive terrestre segno d’incerto segno d’anche antica origine e mi proietta giovani d’ambo i sessi irosi ed ignari, mordendo pere e mele – sassi ai lati del sentiero – e chi era tu lo ignori o lo vedi e lo sai e lo descrivi; resta chiaro ch’era d’ogni altra luce quella e se non quella non la tua piscettina gioiosa e spinellina ludica, madre lingua può e ad ogni occasione toccare a vita questo e quel senno, di poi e questo, senno d’allora ed anche le tenebre lì a spicchio su queste tue spalle da ossuto (sic!) gendarme.
CAPITOLO XIV
Assolutamente coinvolgente quel cumulo chiamato materia, melmoso e definito, con definite forme che apparivano e si mescolavano le une alle altre, mescolate a quel ridicolo umano formicolare, vespaio ansioso con sempre nuove invenzioni, assurdamente preoccupanti e presuntive, magari rullate, magari ossessivamente ripetute, orgogliose e gonfie, dunque vento vano o ricercata mestizia, od amor d’adolescenza sul balcone ferroso, fine pomeriggio, te sul panorama, occhio luna, pigro di me antichi sensi, udito da te d’amor sveglio nei sensi, occhio luna ossessiva, eccola la palma d’onore, ripercorsa poco a poco, di fianco al lago, l’improvviso lago che si apriva tra il verde e di giorno, che si doveva osservare ed aspirare come se fosse un plastico, steso sul tavolino di quello studio, liberi ma perennemente osservati, un poco scontrosi ma rassegnati, quel persistere del tempo stancante, colori e luci, e quel fruscio fuori dalla finestra.
Signore d’ogni aspettativa, magari abbandonato ma inconsapevole completamente della sua condizione di abbandono, con la sensazione di protagonismo e attivismo, lucido ma imbecille, esaltato, principe di una rincorsa drammatica malata e senza fine, destinata a condurre alla soluzione finale, al dramma, all’implosione o all’esplosione, come i fuochi d’artificio partenopei, piroette, girandole, tric e trac, luci, botti, rincorse nei vicoli con l’odore del gas acre, spintonato, illividito dalla consapevolezza di essere nell’errore ma lucido, imbecille, forse consapevole della propria condanna ma ostinato testardo e timoroso, irriverente nella propria religiosità, sacrale nel proprio ateismo, seduto davanti ad un piatto di fagioli, l’ultimo giorno del mese, guardando dalla finestra un brutto panorama di case in costruzione.
Nessuno sconto, pensava, ed intanto si aggrappava all’idea.